Chi lo avrebbe mai detto un mese fa, tutti presi dalle nostre vite così abitudinarie, tranquille, fatte di piccole e grandi gioie, di qualche preoccupazione di tanto in tanto, ma niente che facesse pensare ad uno scenario come quello che stiamo vivendo. Arrivava voce di un virus lontano, tanto lontano da non essere preso nemmeno in seria considerazione da noi occidentali, così evoluti, così aggrappati alle nostre certezze. Eppure eccolo qui.

Il male, un alieno da combattere come avrebbe fatto a muso duro Oriana Fallaci, questa volta è qualcosa di sconosciuto, di diverso, di inaspettato. E soprattutto è subdolo. Sì perché si fa strada per il mondo e dove arriva sconvolge abitudini, certezze e vite. Per chi ne accusa i sintomi si manifesta come una guerra veemente tra il corpo ed il virus, lo attacca e lo prosciuga fino a togliere il fiato. Così vigliacco da entrare in noi e indebolirci, svuotarci, ma senza darlo a vedere, almeno per i primi tempi. Non un bubbone della peste manzoniana né una deformazione del volto come avvenne con l’Ebola. Per chi invece non si ammala c’è una battaglia più silenziosa a cui far fronte, quella della caduta di ogni convinzione, quella con gli altri, da tenere sempre più a distanza, e quella con sé stessi, in un vortice di emozioni a cui la vita moderna ci aveva dissuaso dall’affrontare. Noi, così forti, così attenti all’oggi e certi del domani, così innamorati di noi e delle nostre vite, così devoti a quella libertà di movimento e di azione a cui il XXI secolo ci ha illuso di essere destinati, sempre con la valigia in mano, un aereo da prendere e i frutti della globalizzazione da mettere nel carrello così come nel telefono.

In apparenza tranquilla tra le mura domestiche scorre la giornata, quasi a volte il pensiero sembra cancellare dalla memoria quest’incubo, tanto presi dalle nostre faccende di madri, padri, figli, attorniati dagli oggetti a cui siamo affezionati e dal nido che col tempo ci siamo creati. Poi a spezzare quella silenziosa calma sospesa nelle ore della giornata risuona da dietro le finestre il suono di un’ambulanza, ancora più terrificante nel cuore della notte, oppure l’ultimo bollettino delle vittime, un triste appuntamento a cui ormai ogni pomeriggio siamo abituati a prestare l’orecchio, così affamati di buone notizie, fino ad ora mai arrivate.

Le giornate scorrono lente, diverse in tutto dalla frenesia a cui eravamo abituati, e quante cose questo virus ha cambiato di noi. Ci avete pensato?
Intanto le nostre stanze non sono mai state tanto abitate. I nostri animali domestici si interrogano probabilmente sul perché ci vedono 24 ore su 24 accanto a loro. E anche i nostri figli, abituati a correre tra la scuola, lo sport e mille altre attività, stanno scoprendo un tempo diverso, quello del gioco, a cui ormai sono sempre meno avvezzi, quello della condivisione con i propri genitori, quello della noia, parola inaccettabile per l’era moderna fino a pochi giorni fa.
Si torna a vivere la casa, la tavola, si torna per molti a fare i genitori davvero, a condividere spazi che normalmente non erano così affollati, come il divano o la televisione. Molte donne tornano a fare quei lavori domestici ormai da tempo delegati ad altri, tornano a pulire, a lavare e a cucinare. Alcune si ritrovano in una gabbia, dove la violenza in questi giorni è ancora più amplificata dal senso di vuoto e smarrimento.
La borsa all’ingresso è ferma da giorni perché se si esce lo si fa per sbrigare la spesa, il momento più centrale della settimana.
E il cibo diventa così la vera ricchezza. Sì perché se fino ad un mese fa erano altri gli status symbol oggi è il frigorifero a fare la differenza.
Per strada poi ci si guarda con diffidenza, timore, ansia. Appena si incrocia lo sguardo di qualcuno ci si nasconde dietro ad una mascherina per chi ce l’ha o ad una sciarpa. Ci si saluta a debita distanza, da un balcone all’altro o il più delle volte non ci si saluta affatto, affrettando il passo e girando lo sguardo per non farsi notare. E’ così il virus che ci colpisce ora: è nemico della socialità, dello stare insieme, degli abbracci, delle feste, degli incontri, della convivialità, tanto cara a noi italiani.

E’ persino nemico degli affetti, tanto da costringere i malati ad esalare l’ultimo respiro lontano dall’amore dei propri cari. A chi va bene è concesso un ultimo saluto da un tablet, per gli altri l’ultima cosa ad essere vista su questa terra è una stanza di ospedale affollata, con accanto un altro malato, compagno di sventura, e le cure di un medico o un’infermiera, testimone di un’umanità che lascia la vita con gli occhi spaesati pieni di paura.

Persino al lutto, ad un ultimo saluto e ad una degna sepoltura è contrario questo male e così i corpi delle vittime attendono ormai inermi la fine della propria presenza sulla Terra. C’è la fila per le camere mortuarie e, come un iracondo Achille, che però non si lascia convincere dalle parole di Priamo per il figlio Ettore, il virus nega le salme ai propri cari, nega quell’ultima parola di conforto, quell’addio colmo di lacrime.
La sfilata di mezzi dell’esercito in una attonita Bergamo è l’immagine di un’Italia che vive l’emergenza, che fa la conta dei morti su un grafico, non potendo cedere all’emotività e dimenticando così che in quelle cifre giornaliere ci sono persone, storie, uomini e donne che fino a un mese fa vivevano una quotidianità fatta di abitudini, rituali e monotonia, che ora sembra essere la cosa più bella che possiamo desiderare.

Scende la sera, cala il silenzio, se è possibile averne uno ancora più ammutolito di quello delle strade del centro in questi giorni, e nelle camere da letto si fatica a prender sonno, agitati dalle notizie, dalle storie delle vittime che si fanno sempre più vicine a noi, conoscenti, vicini di casa, padri e madri di colleghi o amici. E si pensa se mai dovesse toccare a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli. Il virus è ormai alle porte e si torna a pregare, pratica ormai dimenticata, perché tutto finisca, perché quella normalità, di cui spesso ci lamentavamo, possa tornare presto. Nel cuscino accanto a noi c’è chi forse ha ceduto al sonno prima di noi, dorme e li nei sogni sembra che tutto sia tornato com’era. L’incubo è al risveglio.

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